COVID-19 – Considerazioni in materia di stabile organizzazione

A cura di Flavia Barone, Carmela Ettorre, Cristina Carmosino e Fabrizio Tenuta

È oramai noto come l’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del COVID-19 stia avendo significativi impatti sulla mobilità delle persone e, di riflesso, sulla vita di relazione e lavorativa di ciascuna di esse.

Nell’attuale contesto emergenziale, le limitazioni ai movimenti delle persone potrebbero avere rilevantissimi impatti per le aziende con operatività transnazionale, che vedono i propri dipendenti o amministratori utilizzare come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa il c.d. “smart-working”, i.e. il lavoro dalla propria abitazione, alle volte ubicata in uno Stato diverso da quello di ordinario svolgimento dell’attività, nonché l’effettuazione con modalità peculiari – dettate dai limiti ai movimenti – di operazioni che in uno scenario ordinario avrebbero avuto esecuzione in altro modo. È di tutta evidenza come tali fattispecie possano avere significativo rilievo con riferimento alla potenziale esistenza di una stabile organizzazione ovvero, se poste in essere da figure chiave aziendali, possano riverberarsi sulla localizzazione della sede dell’amministrazione di una società (c.d. place of effective management), con tutte le conseguenze fiscali che, in entrambi i casi, ne derivano.

In tale ambito, l’OCSE ha emanato il 3 aprile scorso un documento che solleva alcune problematiche e fornisce alcuni primi suggerimenti interpretativi.

Sebbene sia stato da più parti ed in diverse occasioni chiarito che le indicazioni dell’OCSE possono essere legittimamente utilizzate quale strumento interpretativo sia dai contribuenti che dall’Amministrazione Finanziaria, non ci si può esimere dal rilevare come la complessità e delicatezza delle tematiche richiedano certamente un’analisi caso per caso che, pur tenendo conto del generalizzato scenario emergenziale, valorizzi aspetti e caratteristiche di ciascuna esperienza.

Con riferimento alla situazione attuale, l’OCSE si sofferma su taluni aspetti specifici, particolarmente impattati.

Home Office

L’OCSE ricorda che affinché una stabile organizzazione si consideri esistente requisito fondamentale è che la sede d’affari sia fissa, vale a dire abbia un certo grado di permanenza, e sia a disposizione dell’impresa. Sebbene l’abitazione di un soggetto possa in linea di principio essere considerata a disposizione dell’impresa (si veda il Commentario all’articolo 5 del Modello OCSE, paragrafi 18 e ss.), ciò non dovrebbe verificarsi laddove essa sia utilizzata soltanto in via intermittente. Peraltro, l’utilizzo dell’abitazione per l’esercizio dell’attività economica caratteristica attraverso la stessa, dovrebbe essere richiesto all’individuo dall’impresa stessa. Nell’attuale panorama di emergenza, le limitazioni al movimento delle persone vengono imposte ai singoli dai Governi quali provvedimenti emanati per cause di forza maggiore, di talché, a meno che lo smart-working non divenga la modalità ordinaria di esercizio dell’attività, per l’esistenza di una stabile organizzazione parrebbero mancare sia il requisito di un determinato grado di permanenza o continuità dell’attività svolta presso l’abitazione che la richiesta da parte dell’impresa di adottare tale modalità lavorativa, atteso che, in assenza di provvedimenti normativi diretti a limitarne la libertà di movimento, egli avrebbe a disposizione un ufficio nel quale svolgere le proprie mansioni.

Agent PE

Analoghe considerazioni sono effettuate in merito alla stabile organizzazione personale o agent PE. Come noto, la fattispecie si realizza nel caso in cui un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente e “abitualmente” conclude contratti o opera ai fini della conclusione di contratti. Il requisito dell’abitualità difficilmente può configurarsi nel caso in cui un dipendente si trovi a lavorare in un altro Stato nella propria abitazione per un breve periodo per cause di forza maggiore, quale l’emergenza COVID-19, e concluda contratti per conto dell’impresa in tali – puramente transitorie – circostanze. Il Commentario all’articolo 5 del Modello OCSE, specifica che l’esercizio abituale del potere di concludere contratti richiede una presenza nello Stato che non abbia carattere puramente temporaneo o transitorio. È l’OCSE stessa, però, a rimarcare che a diverse conclusioni dovrebbe pervenirsi laddove la conclusione dei contratti per conto dell’impresa nella propria abitazione avveniva già precedentemente all’emergenza COVID-19.

Construction PE

L’emergenza sanitaria ha comportato la sospensione delle attività in diversi cantieri in tutto il Mondo. L’OCSE, richiamando il Commentario sul punto, ritiene che trattandosi di periodi di sospensione del tutto temporanei, di tali periodi debba comunque tenersi conto nel computo dei termini minimi di durata dei cantieri affinché essi configurino stabile organizzazione nel Paese nel quale sono localizzati, poiché interruzioni del tutto temporanee non comportano la cessazione dell’esistenza del cantiere.

La sede dell’amministrazione di una società (place of effective management)

L’attuale crisi sanitaria mondiale e la conseguente impossibilità di viaggiare per il management delle società, potrebbe dar luogo a problematiche concernenti la localizzazione della sede dell’amministrazione della società stessa e, pertanto, della residenza fiscale.

L’OCSE precisa, anche in questo caso, come l’eccezionalità delle circostanze non dovrebbe condurre a mutamenti della residenza di società ed enti, considerata la temporaneità della situazione attuale e l’applicabilità, nelle remote ipotesi in cui possa verificarsi una doppia residenza fiscale, delle c.d. tie breaker rules. Per le Convenzioni stipulate sulla scorta del Modello OCSE 2017, esse prevedono la sottoscrizione di mutual agreements per risolvere problematiche di doppia residenza in merito alle quali si fa riferimento, nel Commentario, al luogo in cui “usualmente” sono tenuti i board della società e sono assunte le decisioni chiave. Le Convenzioni stipulate sulla base del Modello OCSE antecedente al 2017 fanno riferimento esclusivo al place of effective management, quale luogo nel quale sono assunte le decisioni chiave per l’attività della società. Tuttavia, il Commentario 2017 precisa al riguardo che diversi Stati hanno interpretato la clausola come facente riferimento al luogo in cui “ordinariamente” sono assunte le decisioni chiave della società. Un temporaneo mutamento della localizzazione dei membri del consiglio di amministrazione e del senior management di una società in una situazione straordinaria e temporanea connessa alle misure COVID-19 non dovrebbe dar luogo ad un mutamento della residenza delle società e degli enti, anche in considerazione delle tie-breaker rules contenute nelle Convenzioni.

Come già accennato, viste le numerose sfumature nelle quali può estrinsecarsi l’interpretazione in merito all’esistenza di una stabile organizzazione e alla localizzazione della residenza fiscale di una società, considerato che allo stato attuale non si conosce quale sarà l’approccio delle Amministrazioni Fiscali dei vari Stati (fatta eccezione per l’Amministrazione Fiscale irlandese, citata nel documento OCSE) nel confrontarsi con le tematiche di fiscalità internazionale nel contesto dell’emergenza COVID-19, in simili ipotesi un’analisi specifica per valutare il rischio di esistenza di una stabile organizzazione ovvero di attrazione della residenza fiscale di una società in uno Stato diverso sarebbe quanto mai opportuna.

Considerazioni sulle persone fisiche

A causa delle restrizioni rese necessarie dalla pandemia, molti lavoratori transfrontalieri non sono in grado di svolgere fisicamente le loro funzioni nel loro paese di lavoro. L’eccezionalità del momento ha visto modificarsi in taluni casi, oltre che le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, anche il contratto stesso di lavoro con persone che restano a casa senza retribuzione, oppure nei casi estremi, possono essere licenziati a causa di circostanze economiche eccezionali.

L’OCSE, nel documento in commento, ha osservato che questa insolita situazione sta sollevando molte questioni fiscali, specialmente quando subentrano elementi transfrontalieri nell’equazione, ad esempio, quando ci sono lavoratori cross-border o individui bloccati in un paese che è diverso dallo Stato di residenza. Queste situazioni hanno o potrebbero avere un impatto sulla potestà impositiva attribuibile agli Stati. Tale potestà è attualmente regolata dalle norme contenute nei trattati internazionali contro le doppie imposizioni. A tal proposito, l’articolo 15 delle Convenzioni redatte secondo il Modello OCSE disciplina la tassazione dei redditi da lavoro dipendente, attribuendone la potestà impositiva in parte allo stato di residenza del dipendente ed in parte al luogo in cui egli svolge la propria attività lavorativa.

Nello specifico, l’articolo 15 delle Convenzioni redatte sulla base del modello OCSE, stabilisce che i salari che un residente di uno Stato riceve come corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili solo in detto Stato, salvo che l’attività non sia svolta nell’altro Stato contraente.

La tassazione esclusiva nel Paese di residenza del percettore presuppone che siano soddisfatti 3 requisiti:

  • il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo non superiore a 183 giorni dell’anno fiscale;
  • le remunerazioni sono pagate da un datore di lavoro che non è residente nell’altro Stato;
  • l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione che il datore ha nell’altro Stato.

Nel caso in cui lo Stato della fonte eserciti la potestà in base all’articolo 15, lo Stato di residenza del dipendente deve garantire con l’esenzione o il credito di imposta l’eliminazione della doppia imposizione giuridica.

L’OCSE, pone quindi la questione del cambiamento del luogo di esercizio dell’attività lavorativa durante il periodo del Coronavirus. La prima questione riguarderebbe i cosiddetti lavoratori transfrontalieri, la cui disciplina fiscale talvolta viene delineata dall’applicazione di disposizioni speciali contenute in alcuni accordi bilaterali. In questi casi la variazione del luogo di esercizio dell’attività, laddove la normativa specifica contenesse dei limiti nel numero di giorni spesi nei singoli Paesi, potrebbe influire sulle modalità di determinazione e tassazione, delineate dai suddetti trattati, del reddito da lavoro dipendente.

In linea generale l’OCSE, si sofferma sulle possibili conseguenze, per i dipendenti e per i datori di lavoro, che si avrebbero in riferimento all’applicazione dell’art. 15 delle Convenzioni, laddove la situazione contingente, andasse a modificare la sussistenza dei requisiti previsti dallo stesso art. 15.

Questo potrebbe comportare da un lato la perdita del diritto a godere dell’esenzione ai sensi dell’art. 15, con conseguenti obblighi fiscali, dall’altro, potrebbe dover generare eventuali crediti a seguito dell’applicazione di ritenute alla fonte non sospese nell’altro Stato, e in alcuni casi doppia tassazione con conseguenti oneri legati alla liquidità del dipendente in attesa di restituzione del credito di imposta.

L’OCSE suggerisce alle autorità fiscali di adottare, in questa fase, una linea sostanzialmente più flessibile in modo da consentire la sospensione ovvero la restituzione delle ritenute indebitamente operate.

Secondo l’OCSE, circostanze eccezionali richiedono un livello eccezionale di coordinamento tra i paesi per mitigare l’applicazione delle norme e i relativi costi amministrativi sia per i dipendenti che per i datori di lavoro, associati al cambiamento involontario e temporaneo del luogo in cui viene svolto il lavoro.

L’OCSE si dichiara disponibile inoltre a collaborare con i paesi per mitigare le implicazioni fiscali non pianificate e i potenziali nuovi oneri derivanti dagli effetti della crisi COVID-19.

Di particolare rilevanza è inoltre, la determinazione della residenza delle persone fisiche nel periodo dell’emergenza.

A parere dell’OCSE, nonostante la complessità delle regole e nonostante la loro applicazione sia destinata a una vasta gamma di persone, è improbabile che la situazione COVID-19 possa influire sulla posizione dello status fiscale di residenza stabilito dal trattato.

Alcuni Paesi, hanno già fornito utili indicazioni e provvedimenti amministrativi sull’impatto di COVID-19 sull’applicazione del trattato, per la determinazione della residenza fiscale di un individuo. Il Regno Unito, ad esempio, ha emesso una guida per stabilire se i giorni trascorsi in UK possano essere ignorati ai fini della determinazione della residenza a causa di circostanze eccezionali.

L’Australia ha anche pubblicato una guida che afferma che laddove una persona che non è residente in Australia a fini fiscali si trovasse temporaneamente in Australia per alcune settimane o mesi a causa di COVID-19, non diventerà residente nello Stato a fini fiscali.

La guida dell’Irlanda prevede invece, circostanze di “forza maggiore” in cui a una persona sia stato impedito di lasciare l’Irlanda nel giorno previsto per la partenza a causa di eventi naturali straordinari.

Gli scenari principali possibili potrebbero sostanzialmente essere due:

  1. Una persona è temporaneamente fuori casa (forse in vacanza, forse per lavorare per alcune settimane) e rimane bloccata nel paese ospitante a causa della crisi del COVID-19. Se la normativa interna del Paese prevede che si possa acquisire lo status di residenza in base alla permanenza fisica nel Paese per un determinato numero di giorni, allora, si potrebbero avere implicazioni di carattere fiscale non indifferenti.
  2. Una persona lavora in un paese (il “paese di origine attuale”) e vi ha acquisito lo status di residenza, ma temporaneamente ritorna al suo “paese di origine precedente” a causa della situazione COVID-19. Queste persone potrebbero non aver mai perso il loro status di residenti nel loro paese di origine precedente ai sensi della legislazione nazionale, oppure potrebbero riguadagnare lo status di residenza al loro ritorno.

In entrambi gli scenari, l’OCSE, raccomanda agli Stati che la valutazione della residenza fiscale avvenga in base ai Trattati internazionali, in modo da scongiurare possibili casi di doppia residenza dovuti alla dislocazione temporanea, determinati dall’applicazione delle singole normative nazionali.

L’OCSE sottolinea infatti, che un individuo può essere residente in un solo paese alla volta e che le regole sono stabilite nell’articolo 4 del modello OCSE.

Anche se il punto di partenza, nella determinazione della residenza fiscale è la legge nazionale, questa, può essere esaustiva solo se la persona è residente in un solo paese, mentre nei casi di doppia residenza, si applicano le regole del tie-breaker di cui all’articolo 4 del modello OCSE.

Tale articolo, al paragrafo 2, cerca di risolvere il conflitto impositivo in merito alla residenza fiscale della persona fisica avvalendosi di quattro criteri (i cosiddetti tie-breaker rules).

Le quattro tie-breaker rules trovano l’applicazione secondo un preciso ordine di priorità, che attribuisce prioritariamente il potere esclusivo di tassazione sul reddito mondiale dello Stato in cui il soggetto ha a sua disposizione una abitazione permanente (permanent home), in subordine a quello in cui il soggetto ha il proprio centro di interessi vitali (centre of vital interests) ed ancora a quello in cui lo stesso ha una dimora abituale (habitual abode), ed infine a quello di cui la persona fisica possiede la nazionalità. Nel caso in cui nessuno di questi criteri permetta di risolvere il problema di doppia residenza, allora l’unico rimedio applicabile è quello della procedura amichevole, di cui all’art. 25 della Convenzione stessa.

Pertanto, nel caso in cui un soggetto risulti, in base alla legislazione degli Stati contraenti, residenti in entrambi gli Stati, si applica l’art. 4 paragrafo 2 del trattato per risolvere il conflitto fra i due ordinamenti e stabilire lo Stato di effettiva residenza.

L’applicazione delle tie-breaker rules esclude automaticamente la normativa nazionale, attuandone la subordinazione rispetto alla lex superior di fonte convenzionale. Né potrebbe il legislatore incidere su questa situazione con una normativa di fonte interna che, pur salvaguardando il concetto di residenza applicabile ai sensi dell’art. 4, paragrafo 2 del Modello Ocse, prevedesse diverse modalità relativamente all’accertamento della situazione sostanziale.

Nel primo degli scenari di cui sopra, sembra probabile che il test del tie-break conceda principalmente la residenza del trattato al paese di origine. Questo perché è improbabile che la persona abbia una “casa permanente” disponibile nel paese ospitante. Ma se ci fosse ad esempio un appartamento detenuto in affitto per un periodo sufficientemente lungo, e se fosse stata affittata l’abitazione del paese d’origine, allora ci sarebbe la possibilità di essere trattati come residenti del Paese ospitante anche in base al Trattato. Laddove la persona avesse una residenza permanente in entrambi gli stati, sembra probabile che gli altri test di tie-break (centro di interessi vitali, luogo di dimora abituale e nazionalità) avrebbero assegnato la residenza allo stato di origine. L’OCSE in questo caso non suggerisce alcuna misura correttiva.

Nel secondo caso, applicando le stesse regole del trattato, si avrebbe un risultato più incerto perché il legame della persona con il precedente paese di origine è più forte e il fatto che la persona si sia trasferita nel precedente paese di origine durante la crisi COVID-19 può rischiare di ribaltare l’equilibrio verso il precedente paese di origine.

In questo caso il test della dimora abituale non riuscirebbe a soddisfare il requisito richiesto semplicemente determinando in quale dei due Stati contraenti la persona ha trascorso più giorni durante quel periodo.

Pertanto, a parere dell’OCSE, poiché la crisi COVID-19 è un periodo di grandi cambiamenti e una circostanza eccezionale, nel breve termine le amministrazioni fiscali e le autorità competenti, dovranno considerare, ai fini della valutazione della residenza, un periodo di tempo che non sia influenzato da eventi eccezionali come questo ma che risulti “normale” per la persona.

L’OCSE esprime poi un ultimo suggerimento in riferimento ai trattamenti straordinari legati alla perdita del lavoro oppure agli interventi dei singoli Stati a supporto del reddito da lavoro dipendente.

Il parere è quello di considerare questi redditi nello stesso modo in cui dovrebbero essere tassati i trattamenti erogati in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero, tassarli nel Paese in cui è stata prestata l’attività di lavoro dipendente a cui essi si riferiscono.

In definitiva, la posizione che l’OCSE suggerisce agli Stai di adottare, è di mantenere una certa neutralità, nei confronti delle influenze provocate dal COVID – 19 nell’applicazione dei Trattati internazionali.

A nostro avviso però una riflessione a parte meriterebbe l’applicazione della normativa italiana in riferimento alla determinazione del reddito da lavoro dipendente in base alle retribuzioni convenzionali.

La normativa italiana in tema di tassazione dei redditi da lavoro dipendente prestato all’estero con l’articolo 5 del Decreto Legislativo 314 del ’97 ha previsto l’abrogazione dell’articolo 3 comma 3 del TUIR che prevedeva l’esonero per i redditi da lavoro dipendente prestati all’estero in via continuativa ed esclusiva.

L’art. 36 della Legge n. 342 del 2000 ha integrato le disposizioni per la determinazione del reddito da lavoro dipendente del soggetto residente in Italia con l’aggiunta del comma 8 bis all’articolo 48 TUIR, oggi 51.

In particolare, ha stabilito la tassazione del reddito da lavoro dipendente, prodotto all’estero in via continuativa ed esclusiva, di un soggetto

fiscalmente residente in Italia, in base a valori convenzionali definiti con decreto dal Ministero del lavoro. Affinché si applichi il comma 8 bis, l’attività deve essere prestata in via continuativa ed esclusiva e per un periodo superiore a 183 nell’arco dell’anno.

Per l’applicazione della disciplina è necessario uno specifico contratto tra datore di lavoro e dipendente, che preveda la prestazione in via continuativa ed esclusiva all’estero, non applicabile ai dipendenti in trasferta. La base imponibile considera una retribuzione convenzionale, quindi anche i benefits non subiscono nessuna tassazione autonoma, perché il loro ammontare è ricompreso nella retribuzione convenzionale.

Quindi, laddove la situazione contingente legata all’emergenza, facesse venir meno uno dei requisiti previsti dall’art. 51 comma 8 bis, perché ad esempio il lavoratore distaccato all’estero, si ritrova a dover lavorare dall’Italia, allora, si porrebbe il problema di dover assoggettare a tassazione in Italia i redditi prodotti all’estero, determinando la base imponibile, non più in base alle retribuzioni convenzionali ma addirittura in base al reddito effettivo.

Questo implicherebbe un onere enorme in termini di imposte e di adempimenti amministrativi, senza contare che l’approccio andrebbe in senso contrario a quanto sinora suggerito dall’OCSE e dalla stessa UE in materia di sicurezza sociale e previdenziale.

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