Anche la curatela risponde per danni ambientali causati dalla società

I risvolti sulla massa fallimentare

A cura di Federica De Luca, Maria Progida e Alessandra Ghisio

Con la sentenza del 26 gennaio 2021, n. 3, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è tornata a pronunciarsi sulla estensione della responsabilità ambientale a soggetti ulteriori rispetto a quelli che materialmente hanno causato il danno e, in particolare, sull’onere in capo alla curatela fallimentare di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192, Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e ss.mm.ii (il “D. Lgs. 152/2006”), affrontando una tematica da tempo oggetto di un profondo e intenso dibattito della giurisprudenza civilistica ed amministrativistica.

Prima dell’intervento dell’Adunanza Plenaria, la giurisprudenza amministrativa si era pronunciata secondo interpretazioni diametralmente opposte.

Secondo l’orientamento minoritario, il Curatore Fallimentare doveva essere considerato come destinatario degli obblighi di smaltimento di rifiuti e di bonifica di siti inquinanti, in quanto “la dichiarazione di fallimento priva il fallito della disponibilità dei suoi beni, i quali passano nella massa fallimentare da gestire da parte della Curatela” (Consiglio di Stato n. 3672/2017).

Al contrario, secondo l’orientamento prevalente – confermato anche da importanti sentenze del Consiglio di Stato (vd. Sent. n. 4328/2003 e n. 3274/2014) –, il Curatore Fallimentare non era tenuto ad alcun obbligo di bonifica o di smaltimento dei rifiuti riconducibili all’attività posta in essere dall’imprenditore ante dichiarazione di fallimento, ciò in quanto:

  • il Curatore non può essere considerato un successore dell’impresa fallita dal momento che quest’ultima conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio pur perdendone la facoltà di disporne. Pertanto, il Curatore non subentra nei rapporti giuridici dell’imprenditore fallito, ma ha il solo compito di liquidare il patrimonio fallimentare al fine di soddisfare i creditori ammessi al concorso;
  • il Curatore è estraneo alla gestione pregressa e, di conseguenza, è esente da responsabilità per contaminazioni ambientali legate alla precedente attività produttiva. L’unica eccezione è costituita dall’autorizzazione all’esercizio provvisorio ai sensi dell’art. 104 L. Fall.: in questo caso, il Curatore si rende responsabile dell’inquinamento e dei rifiuti prodotti nel corso della sua gestione;
  • ai sensi dell’art. 183 lett. f) del D.Lgs 152/2006 deve intendersi “produttore di rifiuti” “il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)”: l’identificazione del soggetto obbligato al ripristino ambientale non ha dunque carattere oggettivo, ma è sempre subordinata all’elemento soggettivo di dolo o colpa. Anche dal punto di vista sanzionatorio, la sanzione penale viene comminata all’autore della violazione.

Nello stesso senso la giurisprudenza civile che, seppur in mancanza di un vero e proprio orientamento consolidato, aveva precisato che al Curatore non compete l’obbligo di provvedere alla bonifica ed allo smaltimento non essendogli addebitabile alcun comportamento doloso o colposo nell’abbandono dei rifiuti. Spetterebbe quindi all’ente pubblico provvedere all’esecuzione della bonifica dell’area contaminata, salvo poi il diritto di insinuarsi in prededuzione al passivo del Fallimento secondo gli art. 93 e 101 L. Fall. (cfr. Tribunale di Milano, decreto 8/06/2017).

Con la sentenza in esame, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sull’annosa questione, giungendo tuttavia a conclusioni differenti rispetto all’orientamento sino ad ora prevalente.

Nel dettaglio, la questio iuris riguardava un caso di abbandono di rifiuti da parte di una società fallita e se il conseguente obbligo di bonifica/rimozione gravasse anche sul Curatore Fallimentare, ai sensi dell’articolo 192, D. Lgs. 152/2006.

I giudici ammnistrativi hanno fornito al quesito risposta positiva, affermando il seguente principio di diritto: “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152-2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.

Il presupposto da cui muove la sentenza è che, a differenza delle ipotesi di fusione per incorporazione (ipotesi analizzata dall’Adunanza Plenaria con la sentenza 22 ottobre 2019, n 10), nel caso della curatela fallimentare non si realizza la successione di un nuovo soggetto giuridico, continuando la società fallita ad esistere, con la conseguenza che il curatore fallimentare non è responsabile.

Tuttavia, divenendo il Curatore detentore dei beni della società fallita, in seguito all’inventario dei beni ai sensi dell’art. 87 e ss. L.F., egli diventerebbe legittimato passivo alla rimozione dei rifiuti. Nella sentenza si legge, infatti, che “la responsabilità alla rimozione è quindi connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti)”.

Solo una tale interpretazione – a parere dei giudici della Adunanza Plenaria – consente di avere una lettura conforme del D. Lgs. 152/2006 con il diritto europeo, entrambi fondati sui principi di prevenzione e di responsabilità. Il diritto europeo prevede infatti la rimozione dei rifiuti, pur successivamente alla cessazione dell’attività, da parte dell’”imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento”.

Ciò che rileva, ai fini del diritto europeo, per l’insorgere dell’obbligo di rimozione è, in particolare, la disponibilità materiale del bene a prescindere dalla proprietà dello stesso, in ossequio al principio “chi inquina paga”, la cui estensione prevede che “solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna’ prevista dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 (ovvero che sia il Comune a rimuovere i rifiuti potendosi rivalere delle spese sostenute insinuandosi nel passivo fallimentare, ndr)”.

Tuttavia, a parere dei giudici amministrativi, la curatela fallimentare, avendo la custodia dei beni del fallito, “non può avvantaggiarsi dell’esimente di cui all’art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata”, in quanto essendo detentore dei rifiuti, nel rispetto dei principi comunitari e nazionali, il Curatore è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.

A ciò si aggiunga che, costituendo l’abbandono dei rifiuti una diseconomia e mala gestio da parte della società fallita, sempre a parere dei giudici di Palazzo Spada, è giustificato che i costi per la rimozione dei rifiuti ricadano sulla “massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento”.

L’estensione e interpretazione conforme al diritto europeo del principio “chi inquina paga” comporta dunque un’ulteriore riflessione, ovvero che non è necessaria ai fini dell’imputazione della responsabilità la prova dell’elemento soggettivo né l’intervenuta successione. “Al contrario, la direttiva n. 2004/35/CE configura la responsabilità ambientale come responsabilità (non di posizione), ma, comunque, oggettiva; il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni legislative nazionali.

Le attività di bonifica delle aree inquinate, pertanto, rappresentano strumenti pubblicistici finalizzati non già a monetizzare la diminuzione del relativo valore, bensì a consentirne il recupero materiale del bene ambiente. Sempre nella sentenza, si legge quindi che, “nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, L. n. 349-1986”.

Alla luce di siffatti principi, quindi, secondo il nuovo orientamento dei giudici di Palazzo Spada, che con ogni probabilità non metterà la parola fine alla vexata quaestio, “la responsabilità della curatela fallimentare – nell’eseguire la bonifica dei terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto dell’inventario fallimentare dei beni (come è già stato messo in luce), ex artt. 87 e ss. L.F. – può analogamente prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato”.

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