Smart Working e applicazione delle retribuzioni convenzionali

A cura di Carmela Ettorre e Simona Di Grazia

L’emergenza sanitaria COVID-19 iniziata nei primi mesi del 2020, ha costretto diversi Stati ad adottare misure restrittive per contenere la diffusione del virus come la riduzione della mobilità dei dipendenti, con conseguenti ripercussioni sui lavoratori distaccati all’estero, costretti a lavorare in Smart working presso i Paesi di origine invece che presso la sede estera.

Le limitazioni imposte al movimento delle persone hanno avuto infatti, rilevanti impatti soprattutto sulle aziende e sui dipendenti con operatività transnazionale che vedono i loro dipendenti o amministratori utilizzare come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa da remoto,  ovvero, il lavoro presso la propria abitazione, spesso ubicata in uno Stato diverso da quello di ordinario svolgimento dell’attività.

E’ di tutta evidenza come tale fattispecie, non solo vada inquadrata nel contesto normativo, sia interno che Convenzionale, che disciplina la determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche, ma, soprattutto per l’Italia, vanno considerati tutti gli aspetti che riguardano la determinazione dei redditi da lavoro dipendente da assoggettare a tassazione.

Infatti, in base all’art. 51, comma 8 bis del TUIR, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministero del lavoro …”.

La disposizione anzidetta,  prevede l’imponibilità di un reddito determinato in via convenzionale dal Ministro del lavoro (di concerto con i Ministri delle finanze e del tesoro) con specifici decreti annuali qualora determinati requisiti risultino soddisfatti.

Ora, se sotto il profilo soggettivo l’elemento che determina l’applicazione della norma riguarda le persone fisiche, che si qualifichino come residenti fiscali in Italia, sotto il profilo oggettivo, la norma agevolativa può essere applicata nel caso in cui il lavoro sia svolto all’estero in via:

a) continuativa;

b) esclusiva;

c) per più di 183 giorni nei 12 mesi.

Quanto ai requisiti sub a) e b), è evidente che essi sono volti ad escludere dall’ambito oggettivo di applicazione della norma tutte le ipotesi in cui il lavoro all’estero è svolto in via episodica rispetto all’attività lavorativa ordinariamente svolta in Italia (come avviene nel caso di trasferte, anche lunghe, all’estero). La norma si applica ai casi di assunzioni per l’estero, trasferimenti all’estero della sede di lavoro ovvero ai casi di distacco.

Circa il computo dei 183 giorni, l’Amministrazione finanziaria si è già espressa ripetutamente precisando che tale soglia deve essere determinata tenendo conto della durata dell’assignment all’estero: sono quindi da includere nel computo, ad esempio, le vacanze, anche se trascorse in uno Stato diverso da quello di lavoro. Il computo dei 183 giorni tiene conto dei 12 mesi precedenti a prescindere dall’anno solare.

In considerazione dei requisiti previsti per l’applicazione dell’art. 51, comma 8 bis, del TUIR, l’introduzione dello “smart working”, talvolta come modalità ordinaria, ha sollevato qualche perplessità circa la possibilità di applicare le retribuzioni convenzionali a quei dipendenti che pur continuando a svolgere la prestazione di lavoro dipendente a favore della società estera, hanno interrotto la loro permanenza presso il Paese di assegnazione per effetto della pandemia.

Su tale argomento sono arrivati, purtroppo, chiarimenti piuttosto restrittivi da parte dell’Agenzia  delle Entrate, che nella risposta n. 345 del 14 maggio 2021 si è espressa sulla possibilità di applicare le retribuzioni convenzionali ai dipendenti che lavorano in modalità cosiddetta “smart working”.

La società istante rappresenta il caso di un dipendente, fiscalmente residente in Italia, assunto con contratto a tempo indeterminato e inquadramento di dirigente, distaccato a decorrere dal 1° maggio 2019 presso una consociata estera, con sede di lavoro presso gli uffici della società a Parigi.

Il dipendente, durante il 2019 e nel 2020, si è qualificato come soggetto fiscalmente residente in Italia poiché, nonostante il distacco in Francia, ha mantenuto l’iscrizione anagrafica e il domicilio nello Stato italiano per la maggior parte di ciascun periodo d’imposta considerato, avendo mantenuto la sede principale dei suoi interessi familiari e sociali in Italia, Paese nel quale avrebbe continuato a rientrare nei week end e per le vacanze in una situazione di normalità.

Viene evidenziato, inoltre, che la società istante, in qualità di sostituto d’imposta, ha assoggettato il reddito imputato al dipendente in base all’articolo 51, comma 8-bis, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir).

A causa della situazione pandemica, il lavoratore è rientrato dalla Francia in Italia a febbraio 2020, continuandovi a svolgere la propria attività lavorativa a favore della Francia in remote working, pertanto, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente è diventato, eccezionalmente e temporaneamente, l’abitazione del lavoratore in Italia, ove la famiglia del dipendente ha sempre vissuto.

In relazione alle mansioni del lavoratore viene evidenziato che l’attività svolta in Italia dal dipendente in modalità di remote working è la medesima di quella esercitata – e che in condizioni di normalità avrebbe dovuto continuare ad essere esercitata – durante il periodo di effettiva presenza all’estero. Le mansioni del dipendente rispetto al suo ruolo estero sono rimaste immutate, egli non ha mai svolto la sua attività dalla sede della società italiana distaccante, anch’essa chiusa per lunghi periodi, ma solo dalla propria abitazione ed esclusivamente a beneficio del datore di lavoro francese.

Tutti gli elementi caratteristici del contratto, quali la struttura retributiva, le mansioni del dipendente e la sua posizione all’interno dell’organigramma della società distaccataria sono rimasti inalterati. Parimenti, l’addebito del costo (e dunque remunerazione, contribuzione previdenziale, spese vive legate al contratto di distacco, ecc.) del lavoratore continua ad essere previsto per l’intera durata dell’assignment all’impresa distaccataria ad opera della società distaccante.

L’istante chiede all’Agenzia delle Entrate, se vengano meno le condizioni previste dall’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, con particolare riferimento alla continuità ed esclusività del rapporto di lavoro; più precisamente se tali condizioni possano essere compromesse dallo svolgimento di attività lavorativa in luogo diverso da quello contrattualmente previsto e in che modo si debba procedere alla verifica del requisito quantitativo di permanenza all’estero, ovvero dei 183 giorni nell’arco di un periodo di riferimento di 12 mesi.

L’Amministrazione finanziaria chiarisce quali sono le indicazioni da seguire per il calcolo dei giorni di un lavoratore dipendente, costretto a lavorare dall’Italia con le stesse mansioni, a causa delle disposizioni anti-Covid.

Le condizioni da rispettare sono le seguenti:

  • l’attività lavorativa deve essere svolta all’estero per un determinato periodo di tempo con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità;
  • tale attività deve costituire l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa deve essere svolta integralmente all’estero;
  • il lavoratore, nell’arco di dodici mesi, deve soggiornare nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.

Dopo aver riepilogato il quadro normativo di riferimento, e dopo essersi soffermata sulle linee guida dell’OCSE, pubblicate il 3 aprile 2020 e successivamente aggiornate il 21 gennaio 2021,  l’Agenzia delle Entrate ripercorre i precedenti documenti di prassi e fornisce i chiarimenti ai quesiti posti dall’istante.

Come sottolineato nella circolare del Ministero delle Finanze del 16 novembre 2000, numero 207, a determinare la tassazione del lavoro dipendente è la presenza fisica del lavoratore nello Stato.

Nessuna eccezione, quindi, nel caso in cui tale lavoratore abbia lavorato in Italia, sebbene per ragioni connesse con l’emergenza coronavirus.

I dettagli sul calcolo del numero delle giornate lavorative è specificato nel documento di prassi che sottolinea quanto segue: “il Ministero delle Finanze ha precisato che i giorni di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi vengono considerati per intero giorni relativi alla determinazione della retribuzione dello Stato in cui viene prestata in via prevalente l’attività lavorativa.”

Un ulteriore chiarimento riguarda l’ammontare delle retribuzioni convenzionali.

Come specificato nella circolare 13 maggio 2011, n. 20/E dell’Agenzia delle Entrate, il decreto del Ministero del Lavoro che determina l’importo delle retribuzioni convenzionali prevede la possibilità di frazionare tali somme per adeguarle alla durata effettiva del periodo di lavoro.

L’Agenzia non concorda con le conclusioni della società e in sostanza ribadisce  la normativa ordinaria per la quale  se  la prestazione lavorativa non viene svolta all’estero viene meno il requisito principale per l’utilizzo delle retribuzioni convenzionali.

Riguardo alle raccomandazioni dell’OCSE e all’accordo Italia Francia del luglio 2020 l’Agenzia  ritiene  che si tratti di “Interpretazioni di canoni di diritto internazionale”  che non hanno  effetto sull’interpretazione  della  normativa interna.

In particolare, l’Organismo internazionale citato ha suggerito ai Paesi aderenti di  non dare rilevanza alle deviazioni dettate dall’emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai Governi.  E’ stato in questo senso stipulato anche un accordo il 23.7.2020 fra  Italia e Francia di recepimento  che ha inteso” agevolare la posizione dei molti lavoratori che si  spostano tra Italia e Francia e che si son trovati e si troveranno impossibilitati o sconsigliati dal farlo per via dell’emergenza sanitaria”.

Quindi, sulla base del caso oggetto di interpello, l’Agenzia conclude che il requisito dei 183 giorni è ampiamente soddisfatto in quanto il dipendente è stato in Francia dal 1° maggio 2019, giorno del distacco, fino al 22 febbraio 2020 (quindi nell’arco dei 12 mesi ha comunque raggiunto il requisito temporale).

Tuttavia a partire da Febbraio viene meno il requisito della permanenza all’estero e di conseguenza, come chiarito anche dalla prassi (circolare n. 20/2011), la retribuzione convenzionale relativa al mese di febbraio 2020 dovrà essere riproporzionata tenendo conto che da tale data il dipendente soggiorna in Italia e che, viene meno una delle condizioni richieste dalla normativa.

Resta infine, a parere di chi scrive, un ultimo punto di riflessione. La questione attiene al riconoscimento di eventuali crediti di imposta laddove si dovessero verificare casi di doppia tassazione. Infatti, se da un lato l’interpretazione data dall’Agenzia delle entrate si basa su argomentazioni probabilmente già ribadite in precedenti documenti di prassi, dall’altro l’approccio è sicuramente dettato esclusivamente da fonti interne.

Poiché l’esistenza di redditi transnazionali non può prescindere dal considerare il dettato delle Convenzioni bilaterali, nonché i regimi impositivi degli altri Paesi, resta aperto ancora un punto interrogativo su quale sarebbe la posizione dell’Agenzia delle Entrate, laddove a fronte della tassazione in Italia dei redditi prodotti in smart working, ci fosse, perché applicata nel paese della fonte, (si pensi ad esempio a Paesi come UK che tassano in funzione del principio dell’economic employer), una doppia tassazione, quei redditi, poiché prodotti in Italia, potrebbero fruire del riconoscimento del credito di imposta, oppure ci sarebbe di fatto l’impossibilità di recuperare il “foreign tax credit” nel Paese di residenza? Dopotutto l’iniziativa dell’intervento dell’OCSE andava proprio in questa direzione….

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