A cura di Francesca Tironi e Paola Dell’Utri
Il controllo sulla chat aziendale, essendo quest’ultima strumento di lavoro a norma dell’art. 4, par. 2, dello Statuto dei Lavoratori, è sottoposto al particolare regime di cui all’art. 4, comma 3, della medesima legge, a mente del quale le informazioni dalla stessa ricavate sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro – compresi quindi quelli disciplinari – ‘’a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal d.lgs. n. 196/2003“.
Quindi, anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro effettui il controllo sulla chat aziendale per finalità tecniche, può utilizzare gli elementi raccolti a fini disciplinari sono nella misura in cui il lavoratore soggetto al controllo sia stato previamente, adeguatamente, informato di tale circostanza.
È questo il principio affermato recentemente dalla Cassazione (con sentenza n. 25731/21) pronunciatasi su una fattispecie che, in estrema sintesi, aveva visto una lavoratrice licenziata, dopo che – durante un controllo tecnico – il datore di lavoro aveva rinvenuto sulla chat della dipendente una serie di considerazioni offensive rivolte nei confronti di un superiore gerarchico e delle colleghe.
Nello specifico, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato il licenziamento comminato alla lavoratrice e ha stabilito – o meglio ribadito, dato l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale – che ai sensi dell’art. 4, commi 2 e 3 della L. 300/1970, la chat aziendale è da considerare come strumento di lavoro. Ne discende che i dati ivi raccolti – nonostante l’accesso alla chat della dipendente fosse consentito dal regolamento aziendale nelle ipotesi di manutenzione, aggiornamento o di programmazione dei costi – sono inutilizzabili qualora non vi sia stata una preventiva informazione ai lavoratori circa la possibile verifica datoriale sui dispositivi aziendali.
Calato quanto sopra nella pratica, è consigliabile – proprio per evitare rischi di potenziale conflitto come quella descritto – che il datore di lavoro renda edotto il lavoratore, al momento dell’assunzione o in corso di rapporto, della possibilità di controlli sugli strumenti di lavoro allo stesso concessi: ciò, nello specifico, mediante l’informativa ex art. 13 del GDPR o, ancor meglio, mediante una policy che regoli dettagliatamente la materia.
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