A cura di Carlo Romano e Maurizio Foti
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16173/2023, pubblicata in data 8 giugno 2023,ha fornito importanti chiarimenti sul rapporto sussistente tra la nozione di beneficiario effettivo e l’abuso del diritto rispetto al regime di esenzione sui dividendi previsto dalla Direttiva madre figlia.
Fatti di causa
Il caso qui commentato trae origine dal silenzio-diniego, serbato dall’Agenzia Entrate, in relazione ad un’istanza di rimborso della ritenuta di imposta (pari al 27%) applicata in Italia – ai sensi dell’allora vigente art. 27, comma 1, del DPR 600/73 – sugli utili distribuiti da una società figlia italiana ad una società madre residente ai fini fiscali in Lussemburgo, alla luce di quanto previsto dalla Direttiva 90/435/CEE del Consiglio 23 luglio 1990 concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati Membri diversi (c.d. Direttiva madre-figlia), poi rifusa nella direttiva 2011/96/UE, recepita nell’ordinamento italiano con l’art. 2, co. 1, lettera b), del D. Lgs. 6 marzo 1993, n. 136, il quale ha introdotto l’art. 27-bis nel D.P.R. n. 600/1973.
In particolare la società lussemburghese chiedeva, in via principale, il rimborso dell’intera ritenuta subita per violazione dell’art. 27-bis del DPR 600/73 nonché della Direttiva madre-figlia, e, in via subordinata, (i) il rimborso della differenza tra l’ammontare di ritenuta versata (i.e. il 27%) e l’ammontare di ritenuta previsto dall’art. 27, comma 3-ter, del DPR 600/73 (i.e. l’1,375%) o (ii) la differenza tra la ritenuta versata e l’ammontare previsto dalla Convenzione Italia-Lussemburgo (i.e. 15%).
Sia in primo che in secondo grado i giudici di merito negavano il diritto al rimborso per non avere la società dimostrato di avere subito, in concreto, la tassazione dei dividendi in Lussemburgo (per quanto riguarda la richiesta principale e la prima subordinata) e per non avere la Società dimostrato di essere la beneficiaria effettiva dei dividendi (per quanto riguarda la seconda subordinata).
La Società presentava così ricorso per cassazione censurando la sentenza di secondo grado sotto diversi profili di violazione di legge con i quali criticava l’errata decisione dei giudici di pretendere, ai fini del riconoscimento del rimborso in questione, la dimostrazione di una effettiva tassazione del dividendo in Lussemburgo e la prova di esserne il beneficiario effettivo.
La pronuncia della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza qui in commento, sofferma la propria “indagine” sulla rilevanza del requisito del beneficiario effettivo (assorbendo tutte le altre questioni di diritto eccepite nel ricorso) che i giudici di secondo grado ritenevano non sussistente.
La Corte, nel rigettare il ricorso della contribuente, ha espresso il seguente principio di diritto «In tema di dividendi madre-figlia, in ragione del disposto di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27-bis, comma 5 … la circostanza che il soggetto che reclama i benefici ivi previsti non ne sia “beneficiario effettivo” è elemento da valutarsi per la ricostruzione della fattispecie in termini di pratica elusiva, quale segnale di una struttura posta in essere in maniera formale ed artificiosa per usufruire indebitamente dei benefici riservati alle società con sede nell’Unione».
La Cassazione giunge a tale conclusione attraverso una argomentata motivazione dove anzitutto qualifica la clausola del beneficiario effettivo come una clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping.
La Corte riconosce poi, e per la prima volta, come tale clausola sia contemplata soltanto nella c.d. Direttiva interessi e royalties (i.e. Direttiva 2003/49/CE) e non anche nella Direttiva madre-figlia e “ciò si spiega in quanto l’obiettivo della direttiva madre-figlia è che l’utile della società partecipata sia tassato una sola volta presso di essa e che, di conseguenza, i dividendi distribuiti siano esenti, tanto dalla ritenuta in uscita nel Paese della fonte – ovvero quello in cui ha sede la società figlia che li distribuisce – quanto da imposizione in entrata nel Paese ove ha sede la società madre che li percepisce. In questa prospettiva, la dottrina ha osservato che è irrilevante, sul piano tecnico, che il percettore integri lo status di beneficiario effettivo del flusso (soprattutto nella sua accezione originaria di soggetto cui è imputato, sul piano giuridico-formale, il reddito)”.
Nonostante la clausola in questione non sia prevista dalla Direttiva madre figlia, la Corte di Cassazione ha comunque evidenziato come quest’ultima non possa in ogni caso “prestarsi a fini abusivi, come accadrebbe laddove fosse utilizzata a beneficio di soggetti non aventi sede nell’Unione o, più in generale, non aventi le caratteristiche contemplate dalla Direttiva stessa” atteso che il divieto di abuso del diritto è un principio generale immanente.
Tale ultima considerazione è giustificata dalla Corte sia dalla clausola generale antiabuso introdotta nella Direttiva madre-figlia dalla Direttiva 2104/86/UE dell’8 luglio 2014 nella PSD, sia dalla giurisprudenza comunitaria, in particolare le cc.dd. sentenze danesi (cause riunite C-116/16 e C-117/16) nelle quali è stato evidenziato come anche in mancanza di disposizioni antiabuso di diritto nazionale o convenzionale non possa impedirsi “alle autorità e ai giudici nazionali di negare i benefici di una direttiva in caso di frodi o abusi in quanto il divieto delle pratiche abusive è un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione indipendentemente dal fatto che i diritti ed i vantaggi oggetto dell’abuso trovino il loro fondamento nei trattati, in un regolamento o in una direttiva che hanno identificato una serie di indizi dai quali presumere la sussistenza di un abuso”.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società lussemburghese avendo ritenuto che i giudici di secondo grado avessero identificato tutta una serie di elementi idonei a ritenere che la società lussemburghese fosse priva di sostanza economica e che fosse stata costituita al solo fine di poter percepire utili destinati, in realtà, ad altra società extra UE (da qui l’impossibilità di poter applicare il beneficio dell’esenzione prevista dalla Direttiva comunitaria madre-figlia).
Conclusioni
Con tale pronuncia viene finalmente riconosciuto dalla Cassazione come la clausola di beneficiario effettivo sia del tutto estranea rispetto all’ambito della Direttiva madre figlia e che l’unico modo per poter negare il regime di esenzione previsto da quest’ultima in ambito UE, in presenza dei requisiti previsti dall’art. 27bis del DPR 600/73, sia rappresentato dalla sussistenza di una situazione di abuso del diritto volto a far illegittimamente conseguire ad una società extra UE un beneficio che spetta solo a società comunitarie.
Le conseguenze di questa chiara ed argomentata statuizione da parte della Suprema Corte potranno riverberarsi non solo sui giudizi pendenti, e si ritiene con diverse sfaccettature per quelli di rimborso per la diversa posizione processuale delle parti, ma anche sulle attività accertative dell’Amministrazione finanziaria in materia di dividendi madre-figlia che non potranno essere esclusivamente argomentate con la mancanza dello status di beneficiario effettivo per la società madre non residente e che, quindi, dovranno tener conto di tutta la disciplina dell’abuso del diritto di cui all’art. 10 bis legge 212/2000, ed in particolare delle garanzie procedimentali (commi 6, 7 e 8) e dell’esclusione della responsabilità penale (comma 13).
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